Movie Collector
mercoledì 8 giugno 2016
Repo Man - Il Recuperatore - Recensione
Regia: Alex Cox
Genere: Fantascienza, Commedia
Anno: 1984
Cast: Emilio Estevez, Harry Dean Stanton, Tracey Walter
Durata: 92 minuti
Nazionalità: Stati Uniti
Titolo Originale: Repo Man
Repo Man è il primo lungometraggio del leggendario regista underground Alex Cox dopo il corto Sleep is for Sissies di quattro anni prima ed è considerato un classico da molti registi come Nicolas Winding-Refn (Drive, trilogia del Pusher) che considera Cox uno dei suoi registi preferiti.
Nella prima scena del film, un bizzarro ometto sudato a bordo di una Chevy Malibù del 64 viene accostato da un poliziotto in moto nel bel mezzo del deserto californiano. L'agente chiede cosa trasporta nel bagagliaio e l'autista gli risponde "Fidati, non lo vuoi sapere" ma non come una minaccia, piuttosto un consiglio spassionato. L'agente imperterrito si fa dare la chiave e va a controllare. Apre il bagagliaio dal quale scaturisce un'accecante luce verde che lo fa letteralmente evaporare, lasciando sull'asfalto bollente solamente un paio di stivaletti fumanti.
Dopo questa prima memorabile introduzione al mondo assurdo e pericoloso dove il film è ambientato, girata in modo sapiente ed elegante da un dilettante molto più abile di registi con alle spalle decine di pellicole, ci viene presentato Otto (Emilio Estevez), il protagonista della pellicola, un giovane punk un po' sfigato che lasciando una festicciola dove ha scoperto la ragazza che lo tradiva con un suo amico, viene accostato da un uomo ( Harry Dean Stanton), che gli offre un lavoro.
Il lavoro in questione è quello di Repo Man, dove Repo sta per repossession, e nello specifico è quello di rubare (legalmente) le auto a persone che non sono in grado di pagarle.
Una delle auto di cui si deve appropriare è la Chevy Malibù del 64, il cui cofano contiene il cadavere di un alieno.
Buona parte del film non segue una struttura vera o propria e la storia principale è appena accennata, l'interesse è principalmente incentrato sulla crescita personale di Otto nel suo nuovo lavoro.
In quanto apprendista Otto inizialmente non lavora da solo, ma accompagna Bud (Harry Dean Stanton) e Lite (Sy Richardson).
Bud è un reazionario che odia i comunisti (e anche i cristiani, ma non viene spiegato perché) ed è fissato dal concetto di debito. Si crede un eroe per il lavoro che fa e confida a Otto di vestirsi sempre con un completo per sembrare un poliziotto e far credere alla gente a cui sottrae le auto di essere armato. Quando Otto gli chiede se è effettivamente armato Bud gli risponde con il suo motto: solo uno stronzo morirebbe per un auto.
Lite si comporta in modo molto diverso e dall'aspetto si direbbe un personaggio uscito da un film di blaxsploitation. In quanto afroamericano rinuncia a sembrare uno sbirro per imitare un gangster, così bene da convincersi di esserne uno.
Repo Man non è definibile attraverso alcun genere cinematografico, e rappresenta qualcosa di completamente unico, una miscela di umorismo nero, dialoghi geniali (scritti dallo stesso Cox) e violenza assurda. Nessuno di questi tre elementi però è il perno centrale della pellicola, che è in realtà una perfetta storia di formazione, di un giovane punk della scena hardcore americana che diventa adulto, senza però rinunciare allo spirito che lo ha accomunato con gli altri giovani del movimento punk, abbandonandone però gli estremismi autodistruttivi. La crescita di Otto avviene anche grazie a Bud che diventa una figura paterna, che sostituisce la famiglia assenteista, assorbita completamente dalla televisione e che ha donato tutti i soldi destinati ad Otto ad un televangelista di terza categoria.
Inizialmente potrebbe sembrare che Repo Man oramai sia superato, e la storia di Otto antiquata perché strettamente legata ad un movimento scomparso, ma in realtà il punk è solo un pretesto per raccontare una storia eterna.
Repo Man è un film eterno e fondamentale che ha influenzato il modo di fare cinema di tantissimi artisti nei decenni seguenti
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lunedì 25 aprile 2016
Shield of Straw-Proteggi L'Assassino - Recensione
Regia: Takashi Miike
Anno: 2013
Genere: Thriller
Cast: Takao Oshawa, Nanako Matsushima, Goro Kishitami
Durata: 124 minuti
Nazionalità: Giappone
Titolo Originale: Wara No Tate
Miike è forse il regista giapponese più conosciuto in occidente, famoso grazie alle stranezze dei suoi film più che alla sua grandissima abilità tecnica, che sfoggia in questo thriller elegante e che non potrebbe essere più lontano dagli assurdi Dead Or Alive e che non contiene la caratteristica iper-violenza, sostituita da un realismo a tratti doloroso.
La trama è semplice, come sono del resto tutte le migliori, un giovane psicopatico, Kunihide Kyomaru, violenta ed uccide una bambina di sette anni, nipote di un importante industriale e politico. Quest'ultimo, multimiliardario e prossimo alla morte, mette su un quotidiano nazionale una pubblicità, nella quale promette un miliardo di yen (circa 800.000 euro) a chiunque lo uccida. Incaricati della protezione del killer e del suo trasporto alla capitale per il processo sono due agenti della polizia, specializzati nel trasporto di Vip (quei due sulla locandina), accompagnati da tre agenti della polizia metropolitana di Tokyo. Il miliardo però è un bottino molto appetibile per chiunque, e sono decine le persone in disperato bisogno di quei soldi che cercheranno di far fuori il serial killer: poliziotti, infermiere, guardie carcerarie e addirittura un camionista/aspirante kamikaze, che si fa saltare in aria nella speranza di lasciare alla famiglia qualche soldo.
Le scene d'azione sono poche, e troppo reali per essere divertenti, eccezion fatta per la bellissima scena del camion che esplode nel mezzo dell'autostrada, circondato da decine di auto della polizia, girata in modo perfetto, pulito e paurosamente preciso, come il resto del film. Si nota immediatamente la perizia tecnica con il quale Miike posiziona la telecamera e la maniacale cura delle luci.
La fotografia rappresenta uno degli elementi più interessanti della pellicola. L'inizio è molto buio, ma mano a mano che la storia prosegue (ed a sua volta diventa sempre più cupa e deprimente) tutto si fa molto più chiaro, fino alle scene finali, brillanti sia visivamente che concettualmente.
Molte delle critiche mosse in direzione di Shield Of Straw riguardano il fatto che non dia soddisfazione, che la conclusione non sia la classica punizione del cattivo, la redenzione (dei protagonisti, dell'umanità) attraverso la violenza (morte dell'antagonista). Questa mancanza di un esito appagante rappresenta una trovata geniale di Miike, che con questo film intende criticare aspramente la mentalità giapponese (dove, si ricorda, c'è ancora la pena di morte per impiccagione)
della vendetta per mezzo del sistema giuridico, tema affrontato in maniera più cruda e leggera nell'allucinante Tokyo Gore Police di Nishimura.
Il momento più pesante (dal punto di vista emotivo, il film scorre veloce per la sua intera durata) è quando il gruppo di agenti sono costretti a "prendere in prestito" un'automobile in mezzo alla strada ed il proprietario del mezzo si rivela essere il padre della prima vittima di Kyomaru, che chiede ai poliziotti perché spendono tanta energia e soldi per proteggere l'assassino (che è diretto ad essere processato e certamente condannato a morte) quando non hanno potuto fare nulla per salvare la sua bambina. Il motivo è che c'è di mezzo "l'onore nazionale", per il quale i capoccia della polizia sono disposti a mobilitare centinaia di uomini, spendere centinaia di migliaia di yen e sacrificare numerose vite innocenti, e per cosa? per proteggere un assassino che deve comunque essere ucciso?
La pena di morte è una forma di vendetta per niente diversa da quella orchestrata dal nonno della bambina uccisa.
Complessivamente Shield Of Straw è un ottimo thriller, che apparentemente non contiene le classiche caratteristiche di un film di Miike, Non ci sono le assurdità oniriche di Izo o i personaggi ridicoli e fumettosi della serie Crows Zero. Non aspettatevi, però, di vedere un normale thriller,poiché la pellicola contiene alcuni elementi che la portano leggermente oltre alla soglia di sopportazione di molti, come ad esempio la caratterizzazione del killer, deliziosamente disgustoso e orribilmente impenitente.
Anno: 2013
Genere: Thriller
Cast: Takao Oshawa, Nanako Matsushima, Goro Kishitami
Durata: 124 minuti
Nazionalità: Giappone
Titolo Originale: Wara No Tate
Miike è forse il regista giapponese più conosciuto in occidente, famoso grazie alle stranezze dei suoi film più che alla sua grandissima abilità tecnica, che sfoggia in questo thriller elegante e che non potrebbe essere più lontano dagli assurdi Dead Or Alive e che non contiene la caratteristica iper-violenza, sostituita da un realismo a tratti doloroso.
La trama è semplice, come sono del resto tutte le migliori, un giovane psicopatico, Kunihide Kyomaru, violenta ed uccide una bambina di sette anni, nipote di un importante industriale e politico. Quest'ultimo, multimiliardario e prossimo alla morte, mette su un quotidiano nazionale una pubblicità, nella quale promette un miliardo di yen (circa 800.000 euro) a chiunque lo uccida. Incaricati della protezione del killer e del suo trasporto alla capitale per il processo sono due agenti della polizia, specializzati nel trasporto di Vip (quei due sulla locandina), accompagnati da tre agenti della polizia metropolitana di Tokyo. Il miliardo però è un bottino molto appetibile per chiunque, e sono decine le persone in disperato bisogno di quei soldi che cercheranno di far fuori il serial killer: poliziotti, infermiere, guardie carcerarie e addirittura un camionista/aspirante kamikaze, che si fa saltare in aria nella speranza di lasciare alla famiglia qualche soldo.
Le scene d'azione sono poche, e troppo reali per essere divertenti, eccezion fatta per la bellissima scena del camion che esplode nel mezzo dell'autostrada, circondato da decine di auto della polizia, girata in modo perfetto, pulito e paurosamente preciso, come il resto del film. Si nota immediatamente la perizia tecnica con il quale Miike posiziona la telecamera e la maniacale cura delle luci.
La fotografia rappresenta uno degli elementi più interessanti della pellicola. L'inizio è molto buio, ma mano a mano che la storia prosegue (ed a sua volta diventa sempre più cupa e deprimente) tutto si fa molto più chiaro, fino alle scene finali, brillanti sia visivamente che concettualmente.
Molte delle critiche mosse in direzione di Shield Of Straw riguardano il fatto che non dia soddisfazione, che la conclusione non sia la classica punizione del cattivo, la redenzione (dei protagonisti, dell'umanità) attraverso la violenza (morte dell'antagonista). Questa mancanza di un esito appagante rappresenta una trovata geniale di Miike, che con questo film intende criticare aspramente la mentalità giapponese (dove, si ricorda, c'è ancora la pena di morte per impiccagione)
della vendetta per mezzo del sistema giuridico, tema affrontato in maniera più cruda e leggera nell'allucinante Tokyo Gore Police di Nishimura.
Il momento più pesante (dal punto di vista emotivo, il film scorre veloce per la sua intera durata) è quando il gruppo di agenti sono costretti a "prendere in prestito" un'automobile in mezzo alla strada ed il proprietario del mezzo si rivela essere il padre della prima vittima di Kyomaru, che chiede ai poliziotti perché spendono tanta energia e soldi per proteggere l'assassino (che è diretto ad essere processato e certamente condannato a morte) quando non hanno potuto fare nulla per salvare la sua bambina. Il motivo è che c'è di mezzo "l'onore nazionale", per il quale i capoccia della polizia sono disposti a mobilitare centinaia di uomini, spendere centinaia di migliaia di yen e sacrificare numerose vite innocenti, e per cosa? per proteggere un assassino che deve comunque essere ucciso?
La pena di morte è una forma di vendetta per niente diversa da quella orchestrata dal nonno della bambina uccisa.
Complessivamente Shield Of Straw è un ottimo thriller, che apparentemente non contiene le classiche caratteristiche di un film di Miike, Non ci sono le assurdità oniriche di Izo o i personaggi ridicoli e fumettosi della serie Crows Zero. Non aspettatevi, però, di vedere un normale thriller,poiché la pellicola contiene alcuni elementi che la portano leggermente oltre alla soglia di sopportazione di molti, come ad esempio la caratterizzazione del killer, deliziosamente disgustoso e orribilmente impenitente.
giovedì 7 aprile 2016
Princess Madam - Recensione
Regia: Godfrey Ho
Anno: 1989
Genere: Arti Marziali, Poliziesco
Cast: Moon Lee, Michiko Nishiwaki, Sharon (Pan Pan) Yeung
Durata: 87 minuti
Nazionalità: Hong Kong
Titolo originale: Jin pai shi jie
Due agenti della polizia di Hong Kong, Moon (Moon Lee) e Lisa (Sharon Yeung) sono incaricate della protezione dell'ex segretaria di un boss mafioso che arriva in città per testimoniare contro di lui.
Il boss manda un manipolo di assassini per eliminare la testimone scomoda ma le due agenti li eliminano tutti. La moglie di uno degli assassini (Michiko Nishiwaki) uccisi decide di vendicarsi sulle due seducendo il marito di Moon per poi prenderlo in ostaggio.
Oltre alla trama principale la pellicola presenta altre due sotto trame, entrambe legate a Lisa, che si scopre di essere nipote del boss mafioso e contemporaneamente si innamora di un civile a cui salva la vita.
Moon Lee e Michiko Nishiwaki nel periodo in cui questo film è stato girato erano delle celebrità nel cinema d'azione di Hong Kong. Moon Lee apparì come protagonista in numerosi film di questo genere, grazie alle sue grandi doti di combattenti. L'unico suo film giunto in Italia è però "Onore e Gloria" diretto dallo stesso Ho e con protagonista Cynthia Rothrock.
Nonostante la celebrità delle due la vera protagonista è Michiko Nishiwaki, il cui personaggio è l'unico che affronta un vero e proprio cambiamento. Lisa si trova a dover scegliere fra la lealtà al suo distintivo ed alla sua amica ed a quella del padre, poliziotto corrotto, deciso ad aiutare il fratello criminale.
La parte migliore del film sono le numerose scene d'azione, che siano combattimento corpo a corpo, ben coreografati e con ottimi cascatori o le sparatorie alla John Woo (ovviamente non allo stesso livello ma comunque ben dirette e montate). D'altro canto la sceneggiatura superficiale, i dialoghi mediocri ed i personaggi appena abbozzati rendono lo sforzo di Godfrey Ho appena decente.
Anno: 1989
Genere: Arti Marziali, Poliziesco
Cast: Moon Lee, Michiko Nishiwaki, Sharon (Pan Pan) Yeung
Durata: 87 minuti
Nazionalità: Hong Kong
Titolo originale: Jin pai shi jie
Due agenti della polizia di Hong Kong, Moon (Moon Lee) e Lisa (Sharon Yeung) sono incaricate della protezione dell'ex segretaria di un boss mafioso che arriva in città per testimoniare contro di lui.
Il boss manda un manipolo di assassini per eliminare la testimone scomoda ma le due agenti li eliminano tutti. La moglie di uno degli assassini (Michiko Nishiwaki) uccisi decide di vendicarsi sulle due seducendo il marito di Moon per poi prenderlo in ostaggio.
Oltre alla trama principale la pellicola presenta altre due sotto trame, entrambe legate a Lisa, che si scopre di essere nipote del boss mafioso e contemporaneamente si innamora di un civile a cui salva la vita.
Moon Lee e Michiko Nishiwaki nel periodo in cui questo film è stato girato erano delle celebrità nel cinema d'azione di Hong Kong. Moon Lee apparì come protagonista in numerosi film di questo genere, grazie alle sue grandi doti di combattenti. L'unico suo film giunto in Italia è però "Onore e Gloria" diretto dallo stesso Ho e con protagonista Cynthia Rothrock.
Nonostante la celebrità delle due la vera protagonista è Michiko Nishiwaki, il cui personaggio è l'unico che affronta un vero e proprio cambiamento. Lisa si trova a dover scegliere fra la lealtà al suo distintivo ed alla sua amica ed a quella del padre, poliziotto corrotto, deciso ad aiutare il fratello criminale.
La parte migliore del film sono le numerose scene d'azione, che siano combattimento corpo a corpo, ben coreografati e con ottimi cascatori o le sparatorie alla John Woo (ovviamente non allo stesso livello ma comunque ben dirette e montate). D'altro canto la sceneggiatura superficiale, i dialoghi mediocri ed i personaggi appena abbozzati rendono lo sforzo di Godfrey Ho appena decente.
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venerdì 25 marzo 2016
Diamond Ninja Force - Recensione
Regia: Godfrey Ho
Anno: 1988
Genere: Horror, Arti Marziali
Cast: Richard Harrison, Melvin Pitcher, Andy Chworowsky
Durata: 92 minuti
Nazionalità: Hong Kong
Godfrey Ho è, motivatamente, considerato l'Ed Wood di Hong Kong, e Ninja Diamond Force rende evidente il perché di questo paragone. Infatti si tratta dell'unione di un film horror con la classica casa infestata girato negli anni settanta al quale è stato aggiunto attraverso il montaggio un altro film completamente diverso, girato a metà anni ottanta con protagonista Richard Harris, nel ruolo di un ninja. Le due storie parallele sono collegate fra loro grazie al doppiaggio delle scene più vecchie, ed il risultato è un pasticcio sconclusionato e a tratti soporifero.
L'unica cosa che funziona nella pellicola sono i combattimenti, seppur brevi e sparpagliati. Anche questi sono però tutt'altro che perfetti, poiché il protagonista è praticamente invincibile e nessun avversario rappresenta una vera sfida, e la mancanza di tensione fa crollare l'interesse dello spettatore.
La trama delfilm originale era una classica storia di fantasmi e case infestate, dove una coppia si trasferisce assieme al figlioletto in una vecchia casa appartenuta ai genitori di lei. Godfrey Ho ha avuto la folle idea di spiegare le apparizioni dei fantasmi dei precedenti abitanti della casa dicendo che si tratta del risultato degli incantesimi lanciati da un ninja malvagio, il cosiddetto Ghost Ninja, e sta a Gordon (Richard Harris), leader della cosiddetta Diamond Ninja Force, forza del bene da secoli devota allo scontro con i ninja oscuri, sconfiggerlo.
Il film è un pasticcio allucinato e senza senso, ed i pochi momenti divertenti non valgono la pena di sopportare i numerosissimi tempi morti.
Anno: 1988
Genere: Horror, Arti Marziali
Cast: Richard Harrison, Melvin Pitcher, Andy Chworowsky
Durata: 92 minuti
Nazionalità: Hong Kong
Godfrey Ho è, motivatamente, considerato l'Ed Wood di Hong Kong, e Ninja Diamond Force rende evidente il perché di questo paragone. Infatti si tratta dell'unione di un film horror con la classica casa infestata girato negli anni settanta al quale è stato aggiunto attraverso il montaggio un altro film completamente diverso, girato a metà anni ottanta con protagonista Richard Harris, nel ruolo di un ninja. Le due storie parallele sono collegate fra loro grazie al doppiaggio delle scene più vecchie, ed il risultato è un pasticcio sconclusionato e a tratti soporifero.
L'unica cosa che funziona nella pellicola sono i combattimenti, seppur brevi e sparpagliati. Anche questi sono però tutt'altro che perfetti, poiché il protagonista è praticamente invincibile e nessun avversario rappresenta una vera sfida, e la mancanza di tensione fa crollare l'interesse dello spettatore.
La trama delfilm originale era una classica storia di fantasmi e case infestate, dove una coppia si trasferisce assieme al figlioletto in una vecchia casa appartenuta ai genitori di lei. Godfrey Ho ha avuto la folle idea di spiegare le apparizioni dei fantasmi dei precedenti abitanti della casa dicendo che si tratta del risultato degli incantesimi lanciati da un ninja malvagio, il cosiddetto Ghost Ninja, e sta a Gordon (Richard Harris), leader della cosiddetta Diamond Ninja Force, forza del bene da secoli devota allo scontro con i ninja oscuri, sconfiggerlo.
Il film è un pasticcio allucinato e senza senso, ed i pochi momenti divertenti non valgono la pena di sopportare i numerosissimi tempi morti.
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mercoledì 23 marzo 2016
Zona d'Ombra - Recensione
Titolo Originale: Shadowzone
Regia: J. S. Cardone
Anno: 1990
Cast: Louise Fletcher, David Beecroft, James Hong
Durata: 88 minuti
Zona d'ombra è il secondo film prodotto dalla Full Moon Entertainment, società creata da Charles Band nei primi anni novanta tutt'ora attiva ma che raggiunse l'apice del suo successo proprio in quel periodo, grazie anche al lavoro di autori come Brian Yuzna, Stuart Gordon e lo stesso Band, che firmò non solo il primo film prodotto dalla sua società, il leggendario Puppet Master, ma numerosi altri film di culto.
10 minuti dopo l'inizio del film l'unica cosa che riuscivo a pensare era: "Cosa è andato storto?" Non in questa pellicola, ma nell'intero sistema delle produzioni horror (ma anche fantascientifico) di serie b. Cosa è andato storto che nel 1990 venivano prodotti piccoli gioielli come "Zona d'Ombra" e nel 2016 il massimo che un amante dell'horror si possa aspettare è l'ennesimo sequel di Sharknado? Questo non significa che non vengano prodotti film a basso budget di qualità, perché non è vero, però ora come ora non esiste qualcosa di remotamente simile alla Full Moon degli anni novanta, ovvero una casa di produzione gestita da persone amanti del mezzo cinematografico e non avidi incompetenti a cui importa solo fare qualche soldo facile producendo spazzatura senza il minimo valore artistico (vedi The Asylum, che nella metà tempo nel quale la Full Moon ha prodotto una settantina di film ne ha prodotti quasi duecento e distribuiti più di trecento).
Riguardo al film in se non c'è poi molto da dire, si tratta infatti della solita "morality tale" alla Frankenstein, dove degli scienziati troppo ambiziosi si spingono oltre a ciò che è consentito loro (dalla Natura, da Dio, da Cthulhu) e vengono puniti, e più sangue c'è meglio è.
Il protagonista (un capitano della NASA interpretato da Beecroft) è stato incaricato di investigare la morte di una cavia umana in un laboratorio segreto dove un ristretto gruppo di scienziati (alla cui testa si trova lo stereotipico scienziato un po matto alla "Il Giorno dei Morti", interpretato dal mediocre James Hong) fanno esperimenti su soggetti dormienti e per puro caso aprono un portale collegato ad un'altra dimensione dal quale fuoriesce un mostro in grado di assumere qualsiasi aspetto desideri, attingendo dalla memoria degli umani ai quali da la caccia.
L'intero cast è tutt'altro che eccellente, e l'unica interpretazione degna di nota è quella della Fletcher, che riesce a rendere credibile il personaggio di una scienziata affascinata dall'incredibile intelligenza del mostro grazie ad una recitazione appena accennata ma comunque efficace.
Tecnicamente il film è ben realizzato, grazie a qualche bell'effetto splatter e la creazione della suspense dalla mano inesperta (questo è uno dei primi film di Cardone, che lo ha anche scritto) del regista e all'ambientazione buia, fumosa e claustrofobica del laboratorio.
Certamente non si tratta di un capolavoro, ma si tratta comunque di un ottimo prodotto che non merita di essere dimenticato in favore della spazzatura per voyeuristi autolesionisti che godono a guardare Troll 2, Alex l'Ariete e Barbara D'Urso.
Regia: J. S. Cardone
Anno: 1990
Cast: Louise Fletcher, David Beecroft, James Hong
Durata: 88 minuti
Zona d'ombra è il secondo film prodotto dalla Full Moon Entertainment, società creata da Charles Band nei primi anni novanta tutt'ora attiva ma che raggiunse l'apice del suo successo proprio in quel periodo, grazie anche al lavoro di autori come Brian Yuzna, Stuart Gordon e lo stesso Band, che firmò non solo il primo film prodotto dalla sua società, il leggendario Puppet Master, ma numerosi altri film di culto.
10 minuti dopo l'inizio del film l'unica cosa che riuscivo a pensare era: "Cosa è andato storto?" Non in questa pellicola, ma nell'intero sistema delle produzioni horror (ma anche fantascientifico) di serie b. Cosa è andato storto che nel 1990 venivano prodotti piccoli gioielli come "Zona d'Ombra" e nel 2016 il massimo che un amante dell'horror si possa aspettare è l'ennesimo sequel di Sharknado? Questo non significa che non vengano prodotti film a basso budget di qualità, perché non è vero, però ora come ora non esiste qualcosa di remotamente simile alla Full Moon degli anni novanta, ovvero una casa di produzione gestita da persone amanti del mezzo cinematografico e non avidi incompetenti a cui importa solo fare qualche soldo facile producendo spazzatura senza il minimo valore artistico (vedi The Asylum, che nella metà tempo nel quale la Full Moon ha prodotto una settantina di film ne ha prodotti quasi duecento e distribuiti più di trecento).
Riguardo al film in se non c'è poi molto da dire, si tratta infatti della solita "morality tale" alla Frankenstein, dove degli scienziati troppo ambiziosi si spingono oltre a ciò che è consentito loro (dalla Natura, da Dio, da Cthulhu) e vengono puniti, e più sangue c'è meglio è.
Il protagonista (un capitano della NASA interpretato da Beecroft) è stato incaricato di investigare la morte di una cavia umana in un laboratorio segreto dove un ristretto gruppo di scienziati (alla cui testa si trova lo stereotipico scienziato un po matto alla "Il Giorno dei Morti", interpretato dal mediocre James Hong) fanno esperimenti su soggetti dormienti e per puro caso aprono un portale collegato ad un'altra dimensione dal quale fuoriesce un mostro in grado di assumere qualsiasi aspetto desideri, attingendo dalla memoria degli umani ai quali da la caccia.
L'intero cast è tutt'altro che eccellente, e l'unica interpretazione degna di nota è quella della Fletcher, che riesce a rendere credibile il personaggio di una scienziata affascinata dall'incredibile intelligenza del mostro grazie ad una recitazione appena accennata ma comunque efficace.
Tecnicamente il film è ben realizzato, grazie a qualche bell'effetto splatter e la creazione della suspense dalla mano inesperta (questo è uno dei primi film di Cardone, che lo ha anche scritto) del regista e all'ambientazione buia, fumosa e claustrofobica del laboratorio.
Certamente non si tratta di un capolavoro, ma si tratta comunque di un ottimo prodotto che non merita di essere dimenticato in favore della spazzatura per voyeuristi autolesionisti che godono a guardare Troll 2, Alex l'Ariete e Barbara D'Urso.
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